Riporto un articolo del Corriere della Sera su Ugo Ojetti ed i commenti di alcuni lettori.
25/06/2010
Ugo Ojetti principe del gusto
Scritto da: Dino Messina alle 16:28
Da domani al 12 settembre in mostra al Centro Matteucci per l’Arte Moderna di Viareggio Capolavori della collezione Ojetti, “Da Fattori a Casorati”. La mostra è un occasione per parlare di un personaggio dimenticato del nostro giornalismo.
Ugo Ojetti scrisse per quarantacinque anni ininterrotti, dal 1898 al 1943, sul «Corriere della sera», ne fu direttore dal 5 marzo 1926 al 18 dicembre 1927, eppure quando morì, il primo gennaio 1946, il suo giornale gli dedicò soltanto una notizia a una colonna. Il principe della belle époque scontava così mezzo secolo da protagonista nella letteratura, nell’arte e nelle mode culturali, oltre che naturalmente una vicinanza al fascismo che tuttavia non fu mai militanza. La storia stessa della sua breve direzione al «Corriere» dopo l’estromissione dei fratelli Albertini e la breve e fallimentare parentesi gestionale dell’ex corrispondente da Parigi, Pietro Croci, ci dice quanto Ojetti fosse uno dei tanti conservatori che «subirono» la rivoluzione fascista. Non a caso uno dei suoi confidenti in quei mesi era Luigi Federzoni, esponente di quei nazionalisti che dovevano dare un volto rispettabile al fascismo da poco al governo e già incagliato nel giugno 1924 nelle secche politiche per l’assassinio di Giacomo Matteotti.
Dopo la cacciata di Luigi Albertini, Ojetti era consapevole di essere uno dei candidati più accreditati sia per l’anzianità di servizio (nel 1898 era stato mandato negli Stati Uniti a seguire la guerra ispano-americana per l’indipendenza di Cuba) sia per il prestigio che si era conquistato con i romanzi e con la sua serie di ritratti giornalistici. Gli attacchi di Roberto Farinacci gli fecero capire tuttavia che il mestiere di direttore non era fatto per lui e se ne tornò nella sua villa del Salviatino, sulle colline di Firenze, a coltivare gli studi d’arte, letteratura e architettura. A fare cioè quel che gli riusciva meglio: l’arbitro del gusto italiano. Non c’era mostra importante, novità urbanistica (a partire dallo sventramento di Roma per l’apertura di via della Conciliazione), moda letteraria per la quale non fosse interpellato. Perciò nelle biografie e commemorazioni apparse nel dopoguerra quella parentesi da direttore in via Solferino viene citata di sfuggita.
Nato il 15 luglio 1871 in una famiglia del generone romano, fatta di amministratori laici della curia e di notai, Ojetti si laureò in giurisprudenza e, spinto dal padre Raffaello, architetto, si iscrisse a un concorso per entrare in diplomazia cui non si presentò mai. Cominciò subito a collaborare ai giornali e nel 1895 si impose con un libro, “Alla scoperta dei letterati” che era una moderna inchiesta sugli scrittori italiani. Anche se si misurò con il genere romanzo (“Donne, uomini e burattini”, “Mimì e la gloria”, “Mio figlio ferroviere”, il migliore), Ojetti si sentì e si definì sempre e soltanto un «giornalista, cronista, diarista» (così scrisse nella «Lettera a Benedetto Croce» che figura come prefazione a “Scrittori che si confessano”, del 1926).
Ojetti, come riconobbero i suoi critici, a cominciare da Indro Montanelli, sempre grato per l’elzeviro con cui l’autorevole giornalista aveva lanciato “XX Battaglione Eritreo”, dava il meglio di sé nell’osservazione diretta, nel ritratto, nell’intervista. Infatti i sette volumi di “Cose viste”, nei quali apparvero gli articoli comparsi sul «Corriere» con lo pseudonimo di Tantalo, sono considerati il suo capolavoro, o se si vuole il monumento a una certa idea dell’Italia. Ammiratore e allievo di Gabriele D’Annunzio, Ojetti non fu mai un dannunziano. Non era uomo di eccessi, anche in arte preferiva l’Ottocento al Novecento e le sue raccolte di opere nella villa del Salviatino, dove visse con la gelosissima moglie Fernanda e la figlia Paola, non sono paragonabili, ha scritto Paolo Emilio Poesio, agli stravaganti bric à brac della Capponcina o del Vittoriale.
Accademico d’Italia dal 1930, con l’approvazione poco entusiasta di Mussolini, Ojetti fondò e diresse le riviste letterarie «Pegaso» e «Pan» e dal 1920 al 1933 esercitò un’enorme influenza sui movimenti artistici attraverso la rivista «Dedalo». Lo scrittore trevigiano Giovanni Comisso ricordava il suo primo incontro con Ojetti a Parigi, nel 1927, a una mostra in cui esponevano de Pisis, De Chirico, Campigli, pittori che il critico non amò mai. Leggete cosa scriveva nel 1940 a commento di un Premio Bergamo: «Tutti i deformatori di grido, da Campigli a Cesetti, da De Chirico a Tomea, da De Pisis a Mafai, da Rosai a Guttuso, il quale finora è un Cagli con minor cultura (…) sono qui convenuti come al loro presepe». Un tradizionalismo che gli appannò il giudizio quando elogiò Hitler in occasione della mostra sull’«arte degenerata»: «Il colpo di barra dato da Hitler è stato opportuno per la Germania (…), per la svagata e sconnessa Europa è giunto in tempo come un avvertimento igienico».
Anche in architettura, ha notato Marco Valsecchi, Ojetti preferì il celebrativo Piacentini al razionalista e innovatore Terragni. In arte, i suoi meriti maggiori possono riassumersi nell’opera prestata per salvaguardare il patrimonio artistico del Veneto durante la Grande Guerra e nella sua attività di organizzatore di mostre: sul ritratto, sul giardino italiano, sul Sei-Settecento.
È stato scritto che ebbe un potere superiore al suo valore culturale, ma nel secondo dopoguerra l’oblìo calato sulla sua figura è stato eccessivo.
Pubblicato il 25.06.10 16:28 | Permalink| Commenti(4) | Invia il post
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I commenti (4)
Postato da Belmonte | 27/06/2010
L’oblio calato su Ugo Ojetti è dovuto esclusivamente al fatto che fa parte di quella categoria detta dei “Vinti”. Ancora peggio andò ad Ezra Pound, una delle menti più attrezzate del 900, condannato a trascorrere 12 anni in un manicomio criminale USA. Tornando ad Ojetti, ho di recente riletto il suo “Cose viste”, provandone una rinnovata ammirazione.
Un saluto.
Belmonte
Postato da Lettore_833947 | 28/06/2010
Appassionato di Grande Guerra nei confronti di Ugo Ojetti provo quasi venerazione. Indubbiamente senza le sue testimonianze la Terza Armata e il duca d’Aosta, padre Semeria e Cadorna, il convegno di Peschiera o l’armistizio di villa Giusti (solo per citare alcuni personaggi ed episodi) non sarebbero passati alla storia, o almeno non come avvenne. Fu proprio in questo contesto di addetto stampa ‘ufficioso’ al Comando Supremo che Ojetti diede forse il meglio di sé: infatti solo a partire dal 1916 i giornalisti ebbero un minimo di ‘accoglienza’ negli alti comandi e poterono ‘visitare’ le linee, grazie agli interventi appunto di Ojetti e del colonnello Barbarich, e cominciò a nascere il mito della Grande Guerra sulla stampa italiana. Al contrario del brano introduttivo ritengo però che la sua azione nei confronti del patrimonio artistico in pericolo per gli eventi bellici sia un tantino sopravvalutata, visti gli sforzi dei tanti altri poveri sovraintendenti e in particolare del professor Arslan.
Nel secondo dopoguerra tuttavia la personalità di Ojetti, pur appartenendo in un certo senso al mondo dei vinti, era però già drammaticamente superata dagli eventi, non necessariamente esclusivamente in chiave ‘ideologica’. Nei rapporti con la cultura e il mondo artistico ad esempio – già a partire dalla metà degli anni Trenta – Bottai e il gruppo di «Primato» manifestavano orientamenti ben diversi.
Proprio per il fatto che la sua figura brillò particolarmente fino alla soglia degli anni trenta per appannarsi poco dopo, lo considero quindi un grande personaggio dell’Ottocento, come del resto la Grande Guerra fu nello stesso tempo l’ultima del XIX secolo e la prima del XX. Ojetti non superò insomma questa soglia.
Giovanni Punzo (quondam Milesalp)
Postato da Dino Messina | 28/06/2010
Lei, dottor Punzo, come sempre è efficace e colma le mie lacune.
Non ho scritto tra l’altro nel pezzo che Ojetti fu il vero modello-maestro di Montanelli.
Si dice che Ojetti stilò il bollettino della Vittoria e che raccontasse, così riferisce Montanelli, una scena esilarante in cui il generale Diaz chiedeva ai suoi attendenti: ma addò sta sto Vittorio Veneto?
Trovo efficace e azzeccata la definizione di “uomo dell’Ottocento” anche se il preferisco quella di dandy della belle époque… con un gusto supertradizionale, tale da non sopportare nemmeno Modigliani, definito “il pittore dei colli lunghi”.
Non fu fascista o nazista ma confomista sì… eccetera eccetera
Forse Ojetti (come Montanelli) a noi piace perché è una fonte inesauribile di aneddoti e contraddizioni.
Postato da Lettore_833947 | 28/06/2010
L’episodio di Diaz (avvenuto a Padova, anzi ad Abano sede del Comando Supremo) è autentico. Per semplice gusto del dettaglio preciso che in passato esistevano i due borghi di Ceneda (dove era nato il librettista di Mozart Da Ponte) e Serravalle che solo dopo l’annessione del Veneto all’Italia assunsero il toponimo comune «Vittorio» in onore del sovrano regnante.
«Vittorio Veneto» nacque invece dopo il 1918 perché dire «la Vittoria di Vittorio» sembrava una cacofonia. Per questo il fatto che Diaz cercasse sulla carta semplicemente «Vittorio» è ancora più esilerante, perché sembrava appunto alla ricerca di una persona ‘dispersa’ sulle carte a grande scala dell’Ufficio Operazioni e sorvolo sulla caratteristica interiezione castrense attribuita al Duca della Vittoria nelle stesse circostanze.
Quanto al Bollettino della Vittoria la paternità di Ojetti è piuttosto incerta e alcuni lo attribuiscono addirittura a Ferruccio Parri o più semplicemente all’ufficiale di servizio di turno in quel momento. Benchè commovente nel suo significato non si tratta di un capolavoro di prosa eccelsa e la cosa divertente è che fu scritto invece a villa Bembo – nei pressi dei colli Euganei – dove a suo tempo aveva trascorso ampi momenti liberi il cardinal Bembo che invece fu un autentico purista della lingua italiana e profondo conoscitore di Petrarca (Se vi ricordate era quello che dopo aver scritto un sonetto lo riponeva in un mobile a sedici cassetti e ogni volta lo spostava di cassetto per raffinarlo e perfezionarlo…). Insomma questa è un’Italia per cui si deve provare se non un amore travolgente almeno un sincero affetto e molta, molta simpatia…
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