Cose viste di Ugo Ojetti
Mondadori, 1960 (ed.completa)
Avagliano 2003 (antologia)
296 pp. 11 euro
Un testo letterario può avere validità e significato sotto vari aspetti. C’è il valore letterario tout court, ma sicuramente in molti casi c’è anche il valore documentale, relativo a come l’autore ha cercato di tracciare il proprio ritratto personale di certe situazioni ambientate in un’epoca particolare. Il valore documentale è sempre presente nel buon giornalismo. Più difficile è trovare del giornalismo che abbia un significativo valore letterario, specie al livello di quella prosa d’arte che aveva tanta voga in Italia intorno agli anni ’20 ed anche successivamente, e che fu in buona parte spazzata via dall’ondata del neorealismo nel dopoguerra.
Un caso di scritti al confine tra giornalismo da terza pagina e prosa d’arte è fornito dalle “Cose viste” di Ugo Ojetti, sette volumi di scritti vari, di lunghezza abbastanza uniforme, oscillante intorno alla decina di cartelle l’uno, pubblicati dall’autore sul Corriere della Sera, di cui fu anche direttore nel 1926-27. Delle “Cose viste” esiste un’edizione mondadoriana del 1960, in un unico volume, la cui mole comprensibilmente intimidisce, in quanto si tratta di qualcosa come 1500 pagine piuttosto fitte, che trattano…Beh, un po’ di tutto, e cercherò di dare qualche saggio dei temi trattati nel seguito.
Romano autentico, Ojetti era una personalità di spicco in diversi campi, dal giornalismo alla critica d’arte e letteraria. Non si professava particolarmente esperto di musica, ed infatti cercò di trattarla con leggerezza, anche quando incontra Giacomo Puccini già malato ed ossessionato dalla Turandot, che teme di non finire, come infatti fu, o quando si imbatte in Umberto Giordano, che valuta con bonomia meridionale ed umanità dei cantanti lirici per cercare di capire se abbiano la “stoffa”, ma per il resto dà l’idea di avere una vastità di interessi e di competenze non comune.
Gli anni delle Cose viste coincidono suppergiù con il “ventennio”. Fu fascista, Ojetti? Di sicuro non fu un entusiasta ad oltranza, certo fu un sostenitore, ma questo si può dire di tanti scrittori dell’epoca. Non mancava però di coraggio, nel 1925 scrisse un pezzo visitando l’amico Salvemini incarcerato dal governo, pezzo che poi la direzione del Corriere decise di non pubblicare, nel 1928 esprimeva la sua opinione di critico d’arte e di romano sulla “liberazione” del teatro di Marcello con la distruzione di piazza Montanara, seconda piazza “a fiocco” della topografia romana dopo piazza di Spagna, professando il suo amore per quel luogo caratteristico, pur se umile, della città eterna. Certo, era un amante del classicismo, anche nella sua versione un po’ cinematografica e cartapestacea dell’E 42 (o EUR, come si dice oggi). Alla nascita dell’EUR è dedicata una Cosa vista del 1938. E’ l’angolazione che è particolare, Ojetti riesce a vedere la nuova zona dell’Esposizione Universale dal convento delle Tre Fontane, che è quanto di più sobrio e meno declamatorio ci possa essere, come riesce a vedere la fondazione di Littoria (oggi Latina) dagli sguardi degli operai a mensa. Parimenti descrive i Fori Imperiali ricordando la sua conoscenza di una servetta che abitava nelle demolende case di via Cremona (via che esiste ancora oggi, ma che delimita ormai solo gli scavi del foro di Trajano, dove c’è anche quella curiosa statua di Cesare, che indica col braccio un certo balcone…).
Quindi c’è Roma, la Roma imperiale del discorso mussoliniano seguito alla vittoria in Etiopia, e la Roma del popolo, la gente comune che sciama a conoscere il Parco di Castelfusano nel 1932, la cosiddetta “pineta di Ostia” appena aperta al pubblico, e negli ultimi anni sciaguratamente bruciata in buona parte da qualche delinquente, rimasto impunito. E lo scritto su Castelfusano è delizioso, lieve ed umoristico, pur nella leggera coloritura retorica, c’è la famigliola che fa un pic-nic, il marito che fa inavvertitamente cadere a terra due panini, la moglie che dice “Questi adesso te li magni tu” e lui che replica “Se lo sapevo, ne facevo cadere di più”. Ci sono anche i romani vicini al Vaticano, che non più abituati, scoprono dopo il Concordato del ’29, che si può andare, come un tempo, a rivedere il Papa a San Pietro, ma dopo tanti anni si è persa la tradizione, e tutti, ad incominciare dallo stesso Ojetti, in marsina dalle sette del mattino, sembrano non sapere esattamente come ci dovrebbe comportare davanti a quel pontefice tanto vicino da sempre, ma volutamente recluso in Vaticano per quasi settant’anni… E si parla del matrimonio del Principe Umberto, il futuro “re di maggio”, con Maria José, ma ancora una volta visto dalla porta di servizio, da quella popolana che vista la giovane età e la prestanza dei due sposi, si chiede quando lasceranno da soli i “pori fiji” perché facciano quel che natura vorrebbe.
Un grande giornalista di costume, insomma. E la letteratura? Ci sono tutti gli scrittori dell’epoca, come a vederseli davanti, c’è D’Annunzio in tutte le sue varie forme, dal poeta combattente al collezionista un po’ maniacale del Vittoriale al commosso ricordo qualche anno dopo la morte, c’è la notizia della morte di Pirandello portata ai membri dell’Accademia d’Italia e la corsa in auto verso la dimora periferica romana del grande drammaturgo, ci sono Panzini e Moretti nella loro Romagna, uno robusto e vivace, l’altro allampanato e crepuscolare, la spiaggia di Bellaria contro il porto-canale di Cesenatico…, Matilde Serao che conciona gli ospiti in dialetto e che ugualmente in dialetto confessa e consola un’accorata Eleonora Duse, uno dei ritratti più umani del libro, Salvatore di Giacomo che si lamenta della qualità della pizza, già allora… e Vincenzo Gemito, con la sua memoria inossidabile, oltre che la sua notoria ed enfatizzata povertà. E’ come cercare di far sciogliere un libro di letteratura o di storia dell’arte in un bicchiere d’acqua, per farcelo meglio digerire, allo scopo di cercare di avvicinare gli uomini di cultura a noi lettori. Insomma, è divulgazione allo stato puro, ed anche per questo di interesse in una rivista per tutti come Progetto Babele. Come tanto giornalismo, va letto poco a poco, come fu scritto, articolo ad articolo: un’overdose creerebbe qualche problema di assimilazione… Tuttavia, la maggior parte delle Cose viste sono ancora godibili e vantano sempre qualche zampata vincente, ed alcuni pezzi sono famosissimi, come quello che inizia con “Odio il punto esclamativo, questo cappello su una testa molto grande”, che prelude ad un’interessante disquisizione su quando sarebbe nata la necessità di esclamare, che non esiste certo in Dante e Petrarca, e sembra apparire dal nulla tra il Seicento ed il Settecento. Ojetti, da buon critico battagliero, dichiara la sua guerra personale al punto esclamativo, come altri oggi hanno dichiarato (per motivi di ritmo, dicono) odio alla parentesi. Il sottoscritto, che ama ed usa spesso l’uno e l’altra, rimpiange però il garbo dell’argomentazione ojettiana rispetto alla brutalità delle regole di scrittura odierne… E gli viene un po’ di tristezza, pensando al tramonto della “terza pagina”. Ma penso non sia un caso che mi piacciano le riscoperte. (C.S.)